partecipazione
Educare alla partecipazione
Ripensare la scuola insieme ai ragazzi
Per educare alla partecipazione occorre che i ragazzi possano realmente partecipare al processo educativo in tutte le sue fasi;
la didattica deve essere ripensata in modo che i necessari ruoli
non soffochino le individualità
e i contributi di tutti e di tutte
alla vita scolastica.


Docente di Pedagogia presso l’Università
di Milano-Bicocca e lo IusTo di Torino
Il pensiero della tradizione nonviolenta ci ha abituati a considerare fondamentale la coerenza tra i mezzi e i fini soprattutto in ambito educativo. A volte infatti capita che un educatore voglia raggiungere determinati risultati ma utilizzi per il suo scopo strumenti del tutto incoerenti con le finalità; per esempio abbiamo imparato che non si educa alla nonviolenza con strumenti e metodi violenti perché gli strumenti hanno un effetto deviante rispetto al percorso intrapreso.
Qualcosa di simile può accadere quando si parla di educare alla partecipazione a scuola; se la partecipazione diventa un mero argomento di studio o un vago anelito (“ragazzi dovete partecipare”) senza toccare il dispositivo profondo della scuola, il risultato può anche essere l’opposto di quanto auspicato. L’unico modo di educare i ragazzi a partecipare è farli partecipare. Ed è questo che spesso la scuola italiana fatica a fare. È infatti ancora molto diffuso un modello di scuola che Freire definirebbe “riempitivo”, ovvero una scuola unidirezionale che prevede il passaggio di nozioni dal docente agli studenti senza che ci si interroghi su come gli argomenti trattati impattino sulla vita e sulle emozioni dei giovani.
“Dovete imparare perché dovete imparare”: un messaggio che avrebbe fatto la gioia della scuola di Palo Alto come esempio di comunicazione paradossale. Anche quando a parole si afferma che è necessaria la partecipazione, poi la didattica viene intesa unicamente come strategia per il passaggio del sapere dal docente al discente anzi, quasi come una sorta di sapere misterico rivelato solo ai docenti e da tenere lontano dalla portata dei ragazzi. Il problema invece è proprio capire che la didattica è un sapere relazionale e che occorre sempre tenere conto della reazione, delle proposte, delle resistenze dei ragazzi che costituiscono uno dei poli della relazione. John Dewey, in “Democrazia ed educazione” afferma che la democrazia è la forma di governo più favorevole allo sviluppo della scienza perché prevede la collaborazione e il contributo di tutti.
Un gruppo di scienziati non utilizza il principio di autorità ma coinvolge tutti i colleghi e li stimola a formulare ipotesi, dubbi, critiche. In questo senso allora, la partecipazione attiva dei ragazzi a scuola non è indifferente rispetto ai contenuti e agli apprendimenti e rispetto alla diffusione dello spirito critico del quale tanto si parla e si sente la mancanza. La scienza (ma questo vale per qualsiasi disciplina) si impara solo facendola; e a scuola questo “fare” significa “fare insieme”. Ma come riuscire a stimolare questo atteggiamento quando ancora la scuola propone una valutazione sommativa, che sembra più concentrata a perseguire (e a volte perseguitare) gli errori, invece che considerarli come elementi necessari sulla strada del progresso scientifico? Come si può stimolare alla collaborazione quando le verifiche sono sempre unicamente ed esclusivamente individuali? E come è possibile chiedere ai ragazzi di partecipare quando si propone loro una didattica che è un pacchetto chiuso da “prendere-o-lasciare”, negli orari come nelle metodologie, negli strumenti di valutazione come nei metodi di verifica dell’apprendimento?
Il primo passo per educare alla partecipazione a scuola è dunque abbattere tutti gli idoli che sembrano essere elementi scontati nel dispositivo scolastico, e ripensarli insieme ai ragazzi. La scuola non è più scontata, non lo è nel suo complesso, nei suoi riti, nelle sue funzioni e nei suoi metodi. Ci voleva Chat GPT perché qualcuno se ne accorgesse, e non tutti se ne sono ancora resi conto. Occorre allora ripensare la scuola insieme ai ragazzi.
A partire dalla scansione oraria delle discipline, che è il metodo meno felice e più antiquato per stimolare interesse (Lunedì: mat-ita-ita-ing-sci-sto; qualcuno pensa davvero che questo taylorismo scolastico possa in qualche modo suscitare apprendimento? Che si possa passare in tre minuti da Leopardi agli integrali provando un minimo di passione e di interesse?). Passando poi per i linguaggi, tenendo conto che la scuola è il luogo d’incontro tra i codici adulti e quelli adolescenziali e che non si tratta di sostituire Bach con il rap, ma di capire dove queste due culture musicali si incontrano o perlomeno si sfiorano, di abitare i linguaggi dei ragazzi proponendo loro il confronto con i linguaggi adulti, anche e soprattutto della politica. Giungendo al reale coinvolgimento dei ragazzi negli organi collegiali, dando valore non solo formale alla rappresentanza e andando incontro (perlomeno con l’ascolto) alle esigenze e alle richieste dei giovani (si denuncia ipocritamente la bassa partecipazione al voto negli studenti universitari che eleggono rappresentanti che poi non contano assolutamente nulla negli organi collegiali e magari si pensa così di educare alla democrazia). Arrivando infine alla stipula dei regolamenti di istituto, spesso vere e proprie Magnae Chartae del tutto assurde e senza la minima presa sui ragazzi, e che dovrebbero invece essere costruiti passo dopo passo insieme ai giovani (pensiamo al tema del dress code che ovviamente non si risolve né con le leggi draconiane né con la tolleranza rispetto a ogni tipo di abbigliamento, ma attraverso una lunga e spesso faticosa riflessione insieme ai ragazzi).
Ma gli adulti, i docenti, partecipano? A giudicare dai lunghi silenzi di certi collegi docenti o al contrario da certe liti furibonde al momento degli scrutini, nei quali sembra di essere di fronte a uno scambio verbale tra star televisive in un talk show, è difficile crederlo. Se i docenti per primi non praticano quella particolare declinazione della partecipazione che è la collegialità, che significa diritto/dovere di concorrere alla programmazione e alla progettazione della scuola e del suo impatto sulla società, poi è davvero arduo pensare che questi stessi docenti possano trasmettere ai ragazzi l’amore per la partecipazione.
Qualche anno fa i docenti di un noto liceo milanese scrissero una lettera al Ministro dell’Istruzione per denunciare le malefatte di una classe particolarmente turbolenta, e affermando che “ormai il tempo del dialogo era finito”. A parte immaginarci lo stupore di un Ministro che si vede recapitare questa assurda missiva, pensiamo sinceramente che di fronte a questa dismissione di ruolo dell’adulto e del docente sia poi del tutto ipocrita chiedere ai ragazzi di partecipare? Se pensi che il tempo del dialogo sia finito, significa che è finito anche il tempo della tua appartenenza al corpo docente; finché la scuola italiana ospiterà elementi simili sarà davvero arduo poter pensare di educare seriamente e coerentemente alla partecipazione.
Ci sia consentito il colpo di coda finale. Fin quando i programmi scolastici di storia delle quinte superiori si fermeranno agli anni ‘60 del Novecento, parlare di partecipazione e di dovere della scuola di educare alla cittadinanza, resterà sempre una presa in giro. Con tutto l’amore e il rispetto per la storia antica e medievale, riteniamo che i ragazzi debbano crescere, partecipare ed essere cittadini del mondo del XXI secolo, non della civiltà sumera o dei Guelfi bianchi. Una scuola che non ha il coraggio di parlare dell’attualità, senza rinunciare al passato ma rendendolo vivo, è una scuola che educa all’esatto contrario della partecipazione. Che è poi l’acquiescenza e la passività tanto amata da tutti i totalitarismi.
