partecipazione
La partecipazione democratica
nell'Italia repubblicana
La partecipazione democratica
è stata un elemento chiave
nella ricostruzione dell'Italia
repubblicana, allargatasi
in modo inedito alla componente femminile. Fondamentale la fase
resistenziale, che ha fatto emergere la centralità dei partiti
quali principali interpreti
del nuovo “spirito democratico”. Un processo entrato progressivamente in crisi
e oggi al collasso.


Professore Associato di Storia Contemporanea presso Sapienza Università di Roma
La ricostruzione dell’Italia dopo la tragedia della II guerra mondiale, dopo un anno mezzo di feroce guerra civile, dopo venti anni di totalitarismo fascista che aveva distrutto ogni forma di libertà individuale e collettiva e aveva negato ai cittadini i diritti costituzionalmente garantiti, avvenne grazie a un’inedita spinta democratica che coinvolse l’intera comunità, compresa la parte femminile rimasta sino ad allora ai margini.
Il 2 giugno 1946 il voto per l’assemblea costituente e per il referendum istituzionale segnò uno spartiacque nella storia nazionale, indicando per il nuovo Stato postfascista la forma di governo repubblicana e assegnando la guida di esso ai nuovi partiti di massa. Le elezioni amministrative svoltesi nei primi mesi del 1946 avevano introdotto una grande novità: il voto femminile. Alle donne veniva riconosciuto il pieno godimento dei diritti politici e il libero esercizio del proprio diritto di voto. Un tassello essenziale per la modernizzazione del paese, un importante capitolo del lungo e complesso processo di emancipazione delle donne, che pure avrebbero dovuto ancora combattere a lungo – ed in ampie aree del paese – una battaglia culturale, ancor prima che giuridica, per la pari rivendicazione del diritto alla partecipazione democratica.
Un’Italia distrutta dalla guerra e lacerata nel suo tessuto sociale dalla contrapposizione fascismo/antifascismo – esercitata dapprima attraverso la repressione fascista dei suoi avversari politici considerati soggetti antinazionali e nemici della nazione e, successivamente, esplosa sul piano militare, con due opposti fronti espressione di due diversi Stati (il Regno del Sud e la Repubblica sociale italiana) – provava ad attivare nuove energie per ridisegnare il proprio futuro democratico. La possibilità di sanare le fratture, di ricostruire un tessuto sociale e politico condiviso e una “casa comune” di tutti gli italiani passava necessariamente per la diretta e attiva partecipazione di ampi strati della popolazione.
Nella lettura dei partiti antifascisti, la Resistenza aveva svolto questa fondamentale funzione: era stata una pagina di partecipazione eroica, trasfigurata nel mito del secondo Risorgimento – quel Risorgimento sociale che andava a dare compiutezza al Risorgimento politico che aveva unificato la penisola. La Resistenza rappresentava, in questa direzione, un’esperienza popolare, di partecipazione di massa, del tutto inedita nella storia italiana. Si trattava certamente di un’interpretazione politica che serviva a fondare la nuova Repubblica antifascista su basi popolari e aveva, al contempo, l’obiettivo di divaricare le responsabilità del fascismo da quelle del popolo italiano, proponendo la tesi di un regime impostosi coattivamente su una comunità ad esso ostile. Una lettura che, chiaramente, forzava la realtà storica non solo del rapporto tra fascismo e italiani ma anche della stessa esperienza resistenziale.
L’uscita dalla guerra però aveva avuto un effetto realmente rivitalizzante sul piano della partecipazione politica. Si erano aperti spazi nuovi, si era tornati a una dimensione di libertà che aveva fatto esplodere un pluralismo politico e ideologico inedito per larga parte della popolazione, in particolare per le nuove generazioni cresciute nel quadro esclusivo del totalitarismo fascista. Non fu una cosa immediata, naturalmente.
Non mancarono analisi critiche su una certa passività giovanile mentre la stessa questione femminile non si risolveva nel solo accesso al voto (a titolo puramente esemplificativo, si pensi che su 556 deputati eletti alla costituente solo 21 furono le donne, cioè meno del 4%). Tuttavia, giovani e donne rappresentarono un fattore decisivo della partecipazione politica postbellica. Pur dentro un quadro in evoluzione, con una transizione incerta e istituzioni non ancora definite, lo “spirito democratico” andava permeando la vita comunitaria, alimentava speranze, offriva opzioni plurali che mobilitavano risorse, energie, idee.
Una democrazia non ancora funzionante, con progetti dagli esiti incerti, che, pur tra mille difficoltà, segnava la vita comunitaria. Si prefiguravano così forme nuove di democrazia “sostanziale”, “totale”, “progressiva”, “integrale”, declinate in modo diverso ma tutte accomunate dalla percezione di dover costruire un mondo nuovo su basi rigenerate.
A interpretare questo “spirito” furono soprattutto i partiti, ed in particolare quei partiti di massa che, sull’esempio dell’esperienza fascista, avevano compreso la necessità di strutturare un’organizzazione ramificata e capillare capace di penetrare tutti i settori della società, proponendo al contempo una visione unitaria, definita dal punto di vista ideologico e culturale, in cui dirigenti, militanti, simpatizzanti potessero riconoscersi. I partiti divenivano così al tempo stesso “luogo” di partecipazione democratica e soggetto propulsivo di idee e progetti democratici diversi e alternativi.
Una partecipazione conflittuale, divenuta sempre più radicalmente antagonista con il cristallizzarsi delle dinamiche della guerra fredda ma che pure aveva un comune perimetro nei valori e nella prassi, definito e condiviso in sede costituente. Anche partiti che palesavano non poche ambiguità su questo piano, come quello comunista, svolsero una costante azione di pedagogia politica che contribuì a promuovere – si potrebbe definire, per certi versi, un’eterogenesi dei fini – la maturità democratica del paese.
A 80 anni di distanza da quella storia di rinascita che, almeno in Occidente, avrebbe aperto la strada a una sorta di golden age della democrazia durata fino alla metà degli anni Settanta, appare evidente che quello “spirito democratico”, sviluppatosi tra mille ambiguità e contraddizioni, non è più la cifra che caratterizza la nostra società. Il sommarsi della crisi delle ideologie, dei partiti, della politica, delle istituzioni, unitamente alle strutturali criticità della crescita economica, ha prodotto uno sfilacciamento dei legami sociali, relegando ai margini la dimensione comunitaria, riducendo il bene comune a evocazione retorica. Quei “luoghi” collettivi (partiti, sindacati, associazioni) che permettevano ai singoli individui di sviluppare pienamente la propria personalità, contribuendo in modo decisivo alla dialettica democratica, si sono impoveriti, divenendo sempre più attori secondari sulla scena nazionale ed internazionale.
Nel quadro turbolento degli ultimi anni, mentre gli assetti globali mutano e si punta a definire nuovi difficili equilibri, le società democratiche sembrano travolte da uno “spirito” di tutt’altro segno. Saltano le condizioni basilari che avevano portato a costruire democrazie consensuali, progressivamente inclusive, e riemerge la logica della contrapposizione identitaria, dentro e fuori i confini nazionali.
Tornare alla partecipazione come forma di sostegno a una società aperta, dialogica, costruita sulla condivisione delle regole comuni, dove l’antagonismo non è represso ma espresso all’interno di un quadro normativo e valoriale che consenta alle istituzioni di evolvere dinamicamente (e non di frantumarsi), è l’unica strada per resistere ai processi di erosione in corso. Ma è anche la più improbabile in questo clima di rassegnata adesione a un nuovo corso della storia che sembra addensare nubi su nubi, giorno dopo giorno.
