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Una scuola
per umanizzare
la modernità

Henri Bergson sosteneva che il nostro “corpo ingrandito” dalla tecnica

e dalla meccanizzazione avesse bisogno di un “supplemento d’anima”. Dobbiamo quindi “umanizzare la modernità”, orientando la tecnologia verso l’avvento di una società migliore, in cui la scuola abbia un ruolo chiave. 

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Professore Ordinario, Prorettore alla Transdisciplinarità e Direttore della PhD School for Communication Studies presso l'Università IULM di Milano

La comparsa di diversi strumenti basati sull’IA (Intelligenza Artificiale) capaci di generare immagini e testi e inedite performances hanno suscitato molte preoccupazioni per il possibile loro impatto sul mondo della scuola. E, ancora una volta, si è rinfocolata l’eterna querelle tra tecnofobi e idolatri della tecnica, ovvero tra tecno-pessimisti e tecno-ottimisti.

Ciascuno dei due campi avversi sconta un errore capitale. I tecnofobi tendono a dimenticare che la tecnica, a partire dall’uso del fuoco e dal taglio della pietra, dagli utensili alle macchine fino a Internet, fa parte dell’evoluzione esosomatica di Homo sapiens, e che la tecnica è un ingrediente costitutivo della complessa condizione umana. Gli idolatri della tecnica, incantati dai suoi successi e irretiti dal fantasma dell’onnipotenza e del controllo, invece, tendono a dimenticare che proprio gli sviluppi della tecnoscienza hanno reso il mondo più interdipendente, caotico, incerto, imprevedibile, e anche più vulnerabile proprio a causa dell’“effetto boomerang” della nostra potenza tecnologica. Spesso, i tecnolatri continuano a propugnare la chimera del tecnosoluzionismo, cioè della tecnica come panacea di tutti i mali, compresi quelli da essa provocati.

Questa polarizzazione impedisce di elaborare una cultura all’altezza della inedita complessità dell’attuale condizione umana. Si impone per la scuola un’esigenza prioritaria: sgomberare il campo da equivoci che si sono addensati soprattutto con il salto “evolutivo” che le tecnologie emergenti stanno compiendo con il passaggio dagli algoritmi procedurali al machine learning.

In primo luogo, l’intelligenza artificiale propriamente “non” esiste. È un’intelligenza umana aumentata, amplificata, capace cioè di trattare in modo molto più veloce rispetto al cervello umano una massa di dati fornita da programmatori umani alla macchina, attraverso regole di selezione e apprendimento stabiliti da programmatori umani. In ogni caso, l’intelligenza umana è un fenomeno organico di elevata complessità; è la capacità organica di generare associazioni sulla base della ragione, ma anche dell’intuizione e delle emozioni; è un’intelligenza multipla (linguistica, musicale, logico-matematica, spaziale, corporeo-cinestetica, personale e interpersonale…), mentre il computer e l’IA sono fenomeni meccanici di elevata complicazione e sofisticazione.

Come scriveva Leonardo Sinisgalli nel Furor Mathematicus, “la macchina è costretta a non sbagliare. Non ha nessuna possibilità di distrarsi. Fabbrica risultati, non si perde dietro le ipotesi”. Per converso, poter sbagliare, distrarsi, rimuginare sulle ipotesi, sono “vantaggi” dell’intelligenza umana. Ora, alla scuola spetta il compito di agevolare lo sviluppo della complessa intelligenza umana degli allievi, anche utilizzando l’IA come risorsa didattica, facendo loro esperire come l’IA possa e debba essere complementare rispetto all’intelligenza umana, e non sostituirla. 

Inoltre, l’intelligenza artificiale imita e potenzia le operazioni della mente umana. Ma non tutta. Solamente tutto ciò che è analitico e logico, ciò che è algoritmizzabile. Non ciò che non lo è, ciò che è complesso, ciò che agisce nell’incerto, ciò che richiede una comprensione globale e la capacità di collegare e contestualizzare, ciò che chiamiamo creatività e improvvisazione, ciò che dipende dal qualitativo e dall’affettivo, ciò che richiede intuizione e immaginazione. D’altra parte, l’IA nasce e si sviluppa per risolvere problemi. Ma chi stabilisce come risolvere tali problemi? E soprattutto chi li formula? Sono i programmatori degli algoritmi e gli esperti, chiusi nei loro saperi specialistici. 

Oggi, come più ampiamente argomento nel mio ultimo libro, “è nell’accumulo di conoscenze e saperi sempre più specializzati, sempre più parcellizzati per settori scientifici distinti, che si annida la possibilità di “nuova ignoranza” e “l’impotenza della tecnoscienza cresce proporzionalmente alla sua potenza, perché non può calcolare e controllare le conseguenze e gli effetti dei suoi progressi”1. Attraverso l’inter-disciplinarità e la transdisciplinarità la scuola ha un ruolo cruciale nello sviluppare l’intelligenza della complessità, che non può essere imitata o surrogata dall’IA, al fine di apprendere a conoscere e agire nell’incertezza. 

Infine, è urgente educare a ricondurre nel “regno dei fini umani” lo sviluppo dell’IA e delle tecnologie emergenti, e inquadrarlo eticamente e giuridicamente. È urgente educare a un dibattito democratico sulle innovazioni tecnologiche, sulle loro finalità e sulle implicazioni etiche delle loro applicazioni. La scuola ha un ruolo decisivo e insostituibile nel formare cittadini in grado di partecipare a questo dibattito. Per questo l’educazione alla cittadinanza deve includere l’ampliamento delle conoscenze scientifiche e la problematizzazione dei nostri modi di conoscere, dei limiti del nostro conoscere, dei quali potenzialmente “contagiamo” anche le nostre macchine intelligenti, ai cui algoritmi tendiamo a delegare decisioni. D’altra parte, uno spirito critico e autocritico e l’attitudine alla problematizzazione sono la via per prevenire il fatto che l’intelligenza “aumentata” delle macchine produca un essere umano “diminuito”, semplificato e deresponsabilizzato dall’uso servile di queste macchine. 

In conclusione, come già osservava Henri Bergson poco meno di un secolo fa, il nostro “corpo ingrandito” dalla tecnica e dalla meccanizzazione ha bisogno di un “supplemento d’anima”. È ancora di fronte a noi il compito di umanizzare la modernità, cioè di orientare la tecnologia verso l’avvento di una società migliore, invece di lasciare che la società e le persone si adattino passivamente alle innovazioni tecnologiche. Il compito di umanizzare la modernità per far sì che l’IA possa aumentare e non ridurre la presenza, la coscienza, l’intelligenza e l’azione umane, nella loro integralità. Infatti, “Antropotecnica e Antropocene indicano i traguardi di nuove responsabilità e di nuove attività di cura”2. E alla scuola ancora una volta tocca giocare un ruolo chiave e imprescindibile. 

1 M. Ceruti, F. Bellusci, Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro, Raffaello Cortina, Milano 2023, pp. 52-53

2 M. Ceruti, F. Bellusci, Umanizzare la modernità. Un modo nuovo di pensare il futuro, cit. p. 111

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