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partecipazione

Un'economia solidale
è possibile e necessaria
 

Mentre nel mondo sembra “avanzare” in modo inesorabile una corrente di pensiero individualista e senza scrupoli etici nel perseguire i propri interessi, c’è una parte dell’economia

e della società che prova a percorrere altre “strade” fondate su inclusione, partecipazione, solidarietà e rispetto verso l’ambiente in una logica intergenerazionale.

Cooperative, organizzazioni

non profit, benefit company

ne sono una testimonianza concreta e auspicabile. 

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Professore Ordinario di Economia

e Management delle Imprese

presso l’Università di Perugia

Il Novecento è stato attraversato da una profonda contrapposizione ideologica tra un orientamento statalista e un orientamento liberista, in relazione al ruolo dell’impresa nei sistemi economici moderni.

Da un lato, si è sostenuto che solo con l’ampliamento della sfera di intervento pubblico nell’economia, si sarebbero potute rimuovere le cause della non equità nella distribuzione di risorse economiche all’interno del modello di produzione capitalistica. Addirittura, secondo un’impostazione marxista, solo con la sostituzione del mercato da parte dello Stato in tutte le attività economiche, si sarebbero potute realizzare le condizioni di eguaglianza e di libertà.

Dall’altro lato, la visione liberista ha visto nella centralità dell’impresa privata, con i suoi connotati distintivi e il suo orientamento economico al conseguimento del massimo profitto (considerato non solo legittimo ma anche doveroso), l’unico attore capace di creare ricchezza economica, grazie alla quale si sarebbe potuto poi procedere alla sua distribuzione. I meriti individuali, in questa logica allocativa, avrebbero trovato piena soddisfazione, senza gli elementi distorsivi di uno Stato invasivo. In questa contrapposizione dicotomica, è rimasta “occultata”, se non addirittura “soppressa”, tutta l’energia sociale e culturale, imperniata su un’idea di comunità (per taluni aspetti, alternativa allo statalismo e al liberismo) capace di generare modelli di impresa e di società sia competitivi che socialmente sostenibili.

 

Un’impostazione che, già nel corso dell’Ottocento, la dottrina sociale della Chiesa aveva cercato di evidenziare, in modo da coniugare i valori cristiani nell’ambito del modello di industrializzazione capitalistica. Sono di estrema attualità infatti, ancora oggi, le parole di Papa Leone XIII, espresse nel 1891 con l’enciclica Rerum Novarum: «Se con il lavoro eccessivo o non conveniente al sesso e all'età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l'autorità delle leggi». Non solo, in relazione al lavoro, le istituzioni sono preposte “perché mettano mano ai provvedimenti necessari a garantire ai lavoratori la giusta retribuzione e la stabilità». Infine, il Papa auspica che gli operai cristiani possano formare proprie cooperative e l’adozione da parte delle istituzioni pubbliche di strumenti e legislazioni che possano favorire l’accesso alla proprietà da parte dei lavoratori: «Le leggi devono favorire questo diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari.

 

Da qui risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione della ricchezza nazionale». È evidente in questi passaggi l’idea di una società che possa offrire agli operai non solo salari dignitosi ma anche l’opportunità di divenire essi stessi imprenditori nell’ambito di imprese cooperative istituite tra i medesimi lavoratori. Quest’impostazione ha portato, nel corso del Novecento, a potenziare modelli di impresa, diversi da quelli strettamente capitalistici, come quello cooperativo, dove ad esempio i soci lavoratori sono essi stessi proprietari, decidendo le strategie e gli investimenti.

Le cooperative tra lavoratori sono divenute un modello dove le ragioni dell’efficienza e della competitività tendono a coniugarsi con quelli della mutualità e dell’equità. Ma, nel nuovo Millennio, dopo il tramonto dell’ideologia comunista e l’affermazione della supremazia del mercato, altre contraddizioni e istanze sociali e ambientali attraversano il nostro mondo. La globalizzazione porta in luce povertà vecchie e nuove, sia nei paesi emergenti che nel nostro occidente; i cambiamenti climatici e ambientali sono la fonte di nuove preoccupazioni; milioni di migranti fuggono da zone di guerra, aree a crescente desertificazione o paesi in preda a condizioni di povertà estrema.

I capitali finanziari, mai così imponenti nella storia dell’umanità, non hanno più radici e passano, in modo istantaneo, grazie alle tecnologie informatiche, da un polo all’altro di questa terra; grandi multinazionali delocalizzano per ridurre il proprio costo del lavoro o evitare il rispetto di normative ambientali o tributarie; le nuove imprese high tech mirano a realizzare, con gli strumenti innovativi a loro disposizione, una sorta di “capitalismo della sorveglianza” sui cittadini e, perfino, sugli Stati. Insomma, sembra che, nella competizione tra imprese, non ci sia più spazio per la solidarietà e la fraternità universale, nel rispetto di una sostenibilità integrale.

Eppure qualcosa si muove! Forse sono solo piccole e marginali esperienze di cittadini che si auto-organizzano per svolgere talune attività economiche ispirate a valori diversi da quelli propri di un turbo-capitalismo predatorio e lacerante dei legami sociali. Oggi, anche nel nostro paese, esse sono una parte significativa del tessuto economico complessivo, con un forte radicamento nei valori solidali e nei territori dove operano.

Possiamo citare almeno due ampi ambiti di operatività economica. Da un lato, c’è un fermento nella costituzione delle organizzazioni non profit. Associazioni, fondazioni, comitati e ONG sono capillarmente diffuse in tutto il territorio nazionale e, unendo le forze di moltissime persone, sia come donatori sia come volontari, accanto a molti dipendenti, svolgono attività economiche di enorme importanza nel campo della cultura, dello sport, dell’ambiente, dei servizi socio-assistenziali e terapeutici e così via.

Dall’altro lato, molte imprese capitalistiche hanno mitigato il loro scopo, ossia conseguire il profitto, con altri ispirati a criteri di solidarietà sociale, di inclusione e partecipazione dei propri lavoratori e o di impegno sul fronte della sostenibilità ambientale. Sono sempre più diffuse le imprese che adottano modelli partecipativi alle decisioni aziendali dei propri lavoratori, o che immettono meccanismi di welfare aziendale a favore di essi. Gli ambienti di lavoro tendono non più a perseguire logiche produttivistiche individuali ma mirano a sviluppare modelli organizzativi fondati su team di lavoratori, tra loro auto-organizzati e responsabilizzati, anche sul piano decisionale, con spazi comuni anche di tipo ricreativo. Molte di queste imprese assumono la veste giuridica di benefit company, impegnandosi ad esempio ad allocare una parte dei loro profitti a sostegno di iniziative benefiche e filantropiche nell’ambito della comunità locale.

 

E queste attività non sono strumenti di un marketing miope e falso, mirato ad una sorta di “immagine buona” che, in realtà, nasconde una logica di social o green washing, ma appare sempre più autentico e credibile, anche perché capace di rafforzare la stessa competitività dell’impresa. Ne sono una dimostrazione indiretta i giovani di talento che, quando cercano un lavoro dignitoso, sempre più si orientano verso imprese e organizzazioni non profit che sono capaci di mostrare e perseguire autenticamente valori solidali, e non principi individualistici, egoistici e di interessi limitati a pochi individui.

 

Ebbene, se questi cambiamenti “dal basso” prenderanno forza, magari anche grazie alle policies pubbliche, forse potremmo pensare di immaginare un mondo migliore fondato su imprese “migliori”.

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